LA CACCIA ALL’ UNTORE E’ SOLO ALL’ INIZIO

DAVIDE DONGHI
10 min readApr 11, 2020

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La pandemia in atto è un fenomeno estremamente complesso da studiare, per le sue implicazioni non solo sulla salute umana ma su tutti gli aspetti della vita. Purtroppo anche guardando alla storia sappiamo che tragedie di questa portata hanno avuto sempre gravi conseguenze, dalle crisi economiche alle carestie, dalle guerre alle persecuzioni su larga scala, dall’instaurazione di dittature totalitarie fino al proliferare ancora di più delle mafie.

Non dobbiamo dimenticare infatti che le emergenze sono il terreno di coltura ideale per ogni sorta di approfittatori e di speculatori, i quali avendo a disposizione denaro, uomini e mezzi sono in grado di prendere possesso di settori vitali della vita economica e sociale.

Inoltre la storia ci insegna anche che è la percezione della malattia oltre che il suo effettivo impatto sulla popolazione a giocare un ruolo determinante nell’amplificare pulsioni ancestrali e comportamenti irrazionali nell’essere umano.

A questo riguardo e ripercorrendo la nostra storia è intuibile notare come la peste manzoniana del 1630 si avvicina molto all’attuale pandemia di Covid19, ma oltre alle indecisioni «epidemia si, epidemia no», sui provvedimenti da prendere, sulle informazioni da dare, sulle azione da implementare, senza contare il ping pong sulle responsabilità tra governo e regioni, ve ne è un’altra che rileggendo il romanzo dei Promessi Sposi salta subito all’occhio: quella sugli untori e sull’ossessione verso l’individuazione del primo ammorbato, dalla quale far discendere quella di tutti gli altri.

Oggi come allora sembrerebbe che i secoli trascorsi non abbiano cambiato proprio nulla delle nostre ataviche paure e irrazionali smarrimenti. In tempi di Coronavirus ci scopriamo fragili, indifesi, piccoli.

E inevitabilmente l’isolamento al quale siamo costretti non fa che acuire la paura che nell’altro si possa nascondere l’untore o il portatore sano del virus.

Ma è questa la strada giusta da percorrere?

Non dobbiamo continuare a farci prendere dal panico, come è accaduto, ma trovare il giusto equilibrio.

Stiamo invece assistendo purtroppo a un teatrino continuo dove anche i nostri governanti, secondo me tra i primi responsabili di questo disastro, insieme agli organi di comunicazione, addossano ai cittadini la colpa del contagio.

Per loro è semplice questa modalità in quanto il cittadino comune non è poi in grado di replicare e difendersi da tali accuse e dunque sempre più viene additato quotidianamente dai mass media come untore principale semplicemente perché esce da casa per andare a fare una semplice passeggiata, da solo e senza il rischio di infettare nessuno.

Insomma è il solo furbetto da condannare.

Ma identificare i veri untori di questa tragedia in modo cosi semplicistico come sta facendo il nostro governo è fuorviante e non veritiero.

Tenterò dunque di fare chiarezza sulle reali concause che di sicuro hanno peggiorato la crisi in Italia a seguito dell’emergenza Covid-19 e che sono stati secondo me tra i principali untori:

  1. La privatizzazione di una grossa parte del sistema sanitario.

Colpevole di aver tagliato i fondi di quello che rimaneva del pubblico negli ultimi trenta anni, rendendolo impotente a questa emergenza.

E’ evidente infatti che il nostro sistema sanitario, che persino al vertice delle organizzazioni sindacali si ostinano a definire “il migliore del mondo”, si è fatto trovare del tutto impreparato “all’appuntamento con la storia” mettendo drammaticamente in luce le profonde ferite causate alla sanità pubblica dai tagli, dalle ruberie e dalle privatizzazioni a tappeto che si sono succedute negli ultimi decenni, ma anche dal parallelo processo di devoluzione federalista.

Questo processo non possiamo nasconderlo è stato portato avanti dai governi e le opposizioni di turno allo stesso modo e non ha mai smesso di seguire la sua scia devastatrice.

2. La burocrazia di questo paese.

Essa , insieme a coloro che non tentano mai di scalfirla e risolverla per utilizzarla poi come giustificazione, dunque i nostri politici di destra centro o sinistra, non ci ha permesso nemmeno di comprare delle mascherine, respiratori e dei dispositivi medici semplici all’estero in poco tempo per i nostri medici e infermieri.

E li ha esposti al pericolo di morte.

Estremamente pervasiva e avvolgente, come una gabbia, la burocrazia non risparmia nessun settore della nostra società: la pubblica amministrazione, il diritto, la scuola, la sanità.

Gli esempi maggiormente significativi arrivano proprio dal diritto e dalla sanità. La giurisprudenza italiana è tristemente nota per il suo lungo iter giudiziario; pensiamo ad esempio ai diversi processi caduti in prescrizione o ancora, “più semplicemente”, all’emanazione di nuove leggi.

Ma è in materia di sanità che la situazione si sta rivelando allarmante. Nella fattispecie, mancano le mascherine e tutti gli altri dispositivi di protezione: tute certificate, guanti, occhiali e visiere.

C’è dell’altro: paradossalmente le aziende che hanno convertito la loro produzione non possono commercializzare i presidi medici perché sprovviste delle autorizzazioni necessarie.

Fanno pertanto sorridere le recenti ordinanze, in vigore in toscana ed in lombardia, che impongono l’uso della mascherina ogni qualvolta si esca di casa, quando queste non si sanno dove comprare, perché ancora non si trovano.

3. L’invio di messaggi contrastanti dalla politica.

Le rassicurazioni dei leader hanno confuso la popolazione italiana.

Il 27 febbraio, mentre Zingaretti pubblicava la foto dell’aperitivo, il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ex leader del Movimento 5 Stelle, ha tenuto una conferenza stampa a Roma.

“Siamo passati in Italia da un rischio epidemia a un’infodemia”, ha dichiarato Di Maio, denigrando la copertura mediatica che aveva messo in evidenza la minaccia del contagio e aggiungendo che solo lo “0,089%” della popolazione italiana era stata messa in quarantena.

A Milano, a pochi chilometri dal centro dell’epidemia, il sindaco Beppe Sala ha pubblicizzato la campagna “Milano non si ferma” e il Duomo, simbolo della città e attrazione turistica, è stato riaperto al pubblico. La gente è uscita per le strade.

4. “Lockdown” all’italiana fondato su slogan e strategia sbagliata.

In un mese di “lockdown”, fondato sulla parola d’ordine “tutti a casa” i contagi da Covid-19 sono aumentati di 15 volte, i morti di 20.
Lo slogan “io resto a casa”, adottato come perno principale della strategia, è stato concettualmente sbagliato e psicologicamente fuorviante.

Ha spinto gran parte della popolazione italiana a pensare che la famiglia fosse un porto sicuro dal virus, che il rischio stesse “fuori”, e ha forzato decine di milioni di italiani a sigillarsi in casa con i nuclei familiari, spesso addirittura compattandoli e riunendoli in nuclei più ampi. Come ad esempio nel caso degli emigranti meridionali al Nord precipitosamente rientrati nei luoghi d’origine, ma non solo.

Questa dinamica non solo non ha efficacemente limitato la circolazione del contagio, ma al contrario in molti casi la ha favorita, per mezzo della inevitabile accresciuta promiscuità domestica che ne è seguita.

In particolare, ha esposto maggiormente al contagio i soggetti più a rischio: anziani e sofferenti di patologie più o meno croniche e invalidanti. Il primo fattore di perpetuazione dell’epidemia e di aumento della mortalità è stato, dunque, evidentemente intra-familiare.

Piuttosto che “restate a casa” il messaggio fondamentale da veicolare da parte delle istituzioni pubbliche per promuovere un efficace “distanziamento sociale” avrebbe dovuto essere, insomma, “state lontani gli uni dagli altri”: perseguire il massimo isolamento individuale possibile nelle condizioni materiali date, anche dentro i nuclei familiari, e in particolare isolando e proteggendo tutti i soggetti più rischio.

Insomma la linea del “tutti a casa” ha trovato la sua massima rappresentazione in una gestione ispirata ad un modello di governo apertamente paternalistico, animata dall’intento di avvalorare una leadership personale del proprio presidente del consiglio e di creare un rapporto diretto con i governati, noi tutti, e concretizzatasi in continue comunicazioni mediatiche, a reti unificate e/o sui social media.

Dunque la semplicistica soluzione di “chiudere” completamente il paese, la concentrazione senza precedenti di forze per assicurare il rispetto dei divieti di movimento, e l’insistenza con cui la comunicazione governativa identifica l’efficacia nel contrasto al virus con la permanenza dell’intera popolazione nei propri domicili, si rivelano sempre più, in questa luce, non tanto una strategia di salute pubblica quanto innanzitutto uno strumento di controllo sociale.

5. Alcuni imprenditori che furbescamente hanno continuato a tenere aperte le aziende di produzione.

Nascondendosi dietro i codici ateco, nonostante non sia stato realmente parte della filiera essenziale.

Le attività delle imprese sono da sempre riconosciute tramite un codice Ateco, che ne determina la classificazione per settore.

Il decreto del 25 marzo ribadiva la centralità economica di tutte quelle attività che operavano nel campo alimentare e sanitario.

Nella lunga lista dei codici però, sono subito saltate all’occhio delle incongruenze.

Alberghi e strutture simili potevano rimanere aperti per esempio, ma sulla base di quali prenotazioni in una situazione del genere?

Potevano proseguire anche le attività legali e contabili, dimenticando
che parte del loro lavoro riguarda però società in fermo, in cassa integrazione o fallimento. I Tribunali poi si sono fermati.

E ancora, il decreto ha permesso la fabbricazione di prodotti chimici, ma cosmetici e profumi non andrebbero considerati essenziali in una situazione del genere.

Senza dimenticare le “attività degli studi di architettura e d’ingegneria”, che poggiano su sopralluoghi nei cantieri e rilievi necessari, a stretto contatto con altre persone.

Insomma sono scattate immediatamente le prime furbizie di aziende e associazioni datoriali che, pur di sopravvivere, hanno adeguato la propria attività per riconvertirla e non chiudere.

Il tutto fino a che una prefettura non sancisca il contrario, perché in questo momento l’importante è fatturare.

Lo sanno bene Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, le più colpite a livello industriale e dal Coronavirus.

6. Zone industriali come la Lombardia ad alto rischio di inquinamento a favore di profitto e business.

Secondo la Sima, società italiana di medicina ambientale, nelle parole del suo direttore Alessandro Miani, riguardo al contagio dilagante nelle zone del nord afferma:
“Sicuramente possono esserci più cofattori, ma tra questi non tanto la densità della popolazione o il fatto che in questa regione ci siano più scambi commerciali e un maggior movimento di persone. E’ più probabile, invece, che giochi un ruolo determinante il fatto che proprio qui ci siano i massimi livelli di inquinamento italiano e quindi le popolazioni che vi risiedono presentano già di base maggiori fragilità e patologie del sistema respiratorio e dell’apparato cardiocircolatorio sia acute che croniche dovute proprio agli alti livelli di smog, condizione che rende queste persone più esposte al rischio di ammalarsi”.

Insomma il Papa ci ha ricordato ultimamente che non possiamo essere salvi e sani in un mondo che diventa sempre più malato giorno dopo giorno.

Ha ragione: questa pandemia non è un incidente ma è la migliore dimostrazione che la nostra salute dipende direttamente dalla salute degli altri e dalla salute del mondo in cui viviamo.

La deforestazione, i danni di un inquinamento sempre crescente, l’uso sconsiderato della chimica e della tecnologia stanno rapidamente distruggendo migliaia di specie animali e vegetali e con loro la biodiversità.

La nostra specie diviene, quindi, sempre più quella dominante e sempre più, quindi, sarà l’obiettivo privilegiato dei vari virus che sono in grado di replicarsi e modificarsi per superare le nostre difese.

Proprio mentre, come da anni ci ripete l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il crescente riscaldamento del globo ci porterà nuove pandemie tropicali.

E non basterà lavarsi le mani, mettersi le mascherine e allontanarsi di un metro. Ma non basterà neppure un vaccino sempre più difficile da creare.

Se c’è una lezione che dobbiamo imparare in fretta da questa pandemia è che dobbiamo iniziare a combatterne le cause, non le conseguenze.

7. Mancanza di consapevolezza che siamo interdipendenti e tutti responsabili del bene comune.

Siamo colpevoli anche noi, ma non perché ce lo dice il governo a seguito delle sanzioni che aumentano durante questo periodo in quanto non riusciamo a stare in casa 24h e proviamo ad uscire con una scusa per una boccata d’aria.

Ma perché non abbiamo ancora capito che siamo ormai tutti interdipendenti.

L’impatto con l’epidemia ci ha fatto scoprire altri aspetti della nostra società e della vita che troppo spesso si danno per scontati. Per esempio il fatto che ciascuno di noi è individualmente responsabile della salute degli altri e del bene comune molto più di quanto ordinariamente lo percepisca.

Questa interdipendenza non dovrebbe mai consentire atteggiamenti superficiali e richiede perciò educazione sanitaria, cultura della prevenzione, responsabilità e rispetto delle regole della vita buona. Gli stili di vita sani proteggono sia nelle situazioni ordinarie che in quelle straordinarie; non a caso i fumatori sono probabilmente più suscettibili alle complicazioni gravi dell’infezione da Coronavirus.

La lista delle pratiche individuali virtuose sarebbe lunghissima.

Questa crisi può rappresentare una grande opportunità di crescita e di maturazione collettiva, specie per le generazioni più giovani.

Tutti possiamo cogliere la lezione dell’interdipendenza declinandola come educazione alla tutela della propria salute, responsabilità verso gli altri, dovere di solidarietà verso le persone più fragili, anche perché l’epidemia ci insegna che i più fragili da un momento all’altro potremmo essere proprio noi.

Tutti possiamo capire che non si vive soltanto da sé stessi e per sé stessi. Ma c’è anche un’altra straordinaria opportunità…

Quale?

La individuo nel fatto che siamo costretti a fermarci e a fare i conti con il rischio e con la paura della morte. Vivere è sempre rischioso e ogni giorno tutti noi un po’ moriamo, perché scorre il tempo della nostra vita. Tuttavia non ci pensiamo, siamo sempre di corsa e presi dalle cose da fare, preoccupati di “funzionare” più che di “esistere”.

L’attuale situazione di “sospensione” della vita può renderci moralmente più forti se pensiamo che, proprio perché ogni giorno moriamo tutti un po’ alla volta, dobbiamo dare un senso profondo e una motivazione alta alla nostra vita, vivere per qualcosa che valga davvero la pena e non invece sciupare la vita.

Ogni vita è preziosa e ogni attimo della vita è importante. Il nostro popolo è un popolo molto resiliente, abituato a fare di necessità virtù, e sono certo che saprà risollevarsi anche da questa prova. D’altra parte, stiamo vivendo di fatto una soppressione delle libertà costituzionali e questo si può giustificare solo di fronte a un rischio di portata eccezionale.

Ovviamente, la chiusura di tutto o quasi tutto non potrà essere sostenuta a lungo e per accelerare la soluzione del problema tutti dobbiamo fare la nostra parte. Ci è richiesto di essere uniti e superare le divisioni, i personalismi e la frammentazione del tessuto comunitario.

In questo difficile frangente la politica ha la grande responsabilità di cercare l’unità, cosa che purtroppo non ha ancora fatto, e non solo in vista dell’urgenza immediata, ma anche per le strategie di rilancio e di riprogettazione del Paese.

Ma prima di organizzare Team di esperti per ridefinire un nuovo modello di vita economico, sociale e culturale per la ripartenza bisogna comprendere bene dove si vuole andare e fare in modo che tutti poi ne diventino consapevoli e attori del nuovo sentiero da percorrere.

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Written by DAVIDE DONGHI

Writer, Author, Psychologist, Career Coach

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