Senza Respiro
“Every form of addiction is bad, no matter whether the narcotic be alcohol, morphine or idealism.”
― Carl Gustav Jung
Anni fa il mio dottore mi ha convocata nel suo studio per dirmi:
“Mi dispiace Anna, hai superato la tua soglia massima di tolleranza e hai bisogno immediato di supporto medico specialistico.
Il tuo comportamento maniacale sul lavoro ti ha fatta ammalare sempre più a livello fisico e psichico.
Ora dobbiamo invertire la rotta prima che sia troppo tardi.”
Ma la mia prima reazione e risposta fu:
“Si ha ragione che spesso sto malissimo, ma chi non lavora duramente oggigiorno.”
Non poteva essere una diagnosi medica.
Era estremamente ridicola, pensai dentro di me.
Ad ogni modo il mio dottore fu irremovibile e col tempo compresi che aveva ragione.
Mi è sempre piaciuto lavorare tanto e senza limiti, inviando oltre duecento email al giorno e vivendo di caffè senza dormire quasi mai.
Ma le mie abitudini ossessive avevano preso il sopravvento.
Ricordo ancora stampata nella mia testa, come se fosse ieri, quella fatidica mattina.
Era il 7 marzo 2019, avevo appena compiuto 30 anni. Mi ero appena svegliata, e non ero letteralmente in grado di muovermi.
Per quattro ore sono rimasta a letto in uno stato quasi catatonico.
Poi finalmente sono riuscita a trascinarmi fuori, raggiungere il mio medico e per sentirmi dire che, purtroppo, i miei malesseri avevano un’unica causa;
la dipendenza dal lavoro!
Gli eczemi cronici, le ulcere alla bocca, la pancia gonfia, la depressione e gli attacchi di panico avevano tutti una stessa origine.
Mi stavo portando inesorabilmente verso l’annullamento.
Avevo bisogno di fermarmi immediatamente.
Ma come sono arrivata a questo punto?
🧩 🧩 🧩 🧩 🧩 🧩 🧩 un pò di me 🧩 🧩 🧩 🧩 🧩 🧩 🧩 🧩
Ho iniziato a lavorare in un ruolo amministrativo e contabile quando avevo appena compiuto 25 anni, immediatamente dopo la mia laurea in economia.
Ero all’interno di un piccolo studio di consulenza, ma rinomato nella mia zona.
Venivo da una famiglia di campagna, ma benestante, della provincia Toscana.
Nella mia famiglia però i riconoscimenti erano veramente rari.
Così mi tuffavo nel lavoro di ufficio giorno dopo giorno
E alla fine mi sentivo accettata e parte di qualcosa.
In ufficio mi elogiavano continuamente per il duro lavoro,
e gradualmente la mia autostima divenne dipendente dal giudizio del mio capo e dei colleghi più grandi.
Mi sentivo persino in colpa quando non lavoravo e ciò mi portava a pensarlo costantemente.
Ero attiva sul luogo di lavoro per almeno 12 ore al giorno e avevo un’energia irrefrenabile anche per le serate nei ristoranti e discoteche.
L’adrenalina che saliva mi dava continuamente brevi, ma intensi stati di piacere.
Sentivo comunque dei segnali di pericolo.
Erano già presenti.
Il giorno del compleanno dei miei 26 anni, appena arrivata a studio ho sentito un dolore improvviso nel mio basso ventre.
Era così forte che mi piegai immediatamente in due con la mano premuta sullo stomaco.
Il mio colon era infiammato, mi disse il dottore quel pomeriggio.
E tutto questo già a causa dello stress da lavoro.
Non gli diedi comunque peso in quanto pensavo di essere invincibile.
Poi ero anche giovanissima e ho ignorato l’accaduto.
L’anno successivo ho lasciato la casa dove ero nata e cresciuta.
Ho salutato mio padre e mia madre e mi sono trasferita per lavoro in un’altra città.
Ero riuscita ad ottenere un lavoro da analista presso una società di revisione contabile di Milano.
E come se non mi fosse mai accaduto nulla, ho ricominciato con la mia folle vita.
Lavoravo ogni ora che potevo.
Venni anche rapidamente promossa a team leader, nonostante non avessi compiuto ancora 27 anni.
Il mio comportamento morboso sul lavoro, scambiato per fedeltà, premura e ambizione, fu addirittura premiato dalla dirigenza e preso come esempio da seguire per tutti gli altri dipendenti.
Gli anni passarono e il lavoro continuò a sommergere la mia intera esistenza.
Partecipavo nel frattempo a innumerevoli ed estenuanti riunioni, in mezzo a continue telefonate, su e giù per gli aeroporti d’Italia.
Lavoravo poi anche nei fine settimana e arrivavo sempre in ritardo con i parenti e amici.
In aggiunta non stavo mai lontana dal mio smartphone fino alla tarda notte.
Ero arrivata al punto che, se non sentivo il suono delle notifiche dei messaggi e conseguentemente non li leggevo, entravo in ansia.
Ero sempre eccitata e godevo di queste brevi, ma intense sensazioni di piacere. Non ero però felice e non capivo il perché.
Sullo sfondo i miei problemi di salute erano sempre in agguato.
Il mio stomaco era costantemente gonfio, anche se mangiavo a malapena.
Ritornavo ad avere eczemi su tutto il corpo, ulcere alla bocca e acne continue.
I dermatologi continuavano a diagnosticare lo stress e a mettermi in guardia, ma ancora una volta li ignoravo.
Dopo alcuni mesi sono sorti anche gli attacchi di panico.
La prima volta che è successo avevo 28 anni.
All’ improvviso smisi di respirare, rimanendo a bocca aperta per mancanza d’aria e sentendo il cuore che mi martellava forte sul petto.
Avevo questi attacchi sempre più spesso, a volte anche di fronte a colleghi e amici.
Dopo aver detto al mio dottore di questi ultimi accadimenti, sono stata messa sotto cura di antidepressivi e tranquillanti.
Nonostante ciò mi sono gettata di nuovo nell’ unica cosa che avesse un significato per me: Il mio lavoro.
Ad ogni modo a causa della mia incapacità di vivere una vita normale,
Stavolta sono andata avanti ancora per poche settimane.
Infatti dopo quella mattina fatale in cui mi sono svegliata quasi paralizzata, sono stata definitivamente ricoverata nel reparto di Psichiatria dell’ospedale vicino al mio quartiere.
Mentre ero lì ho iniziato finalmente a capire quanto stavo male e la natura della mia dipendenza dal lavoro.
Era una dipendenza forte come qualsiasi altra, come quella dalla droga, alcol o gioco d’azzardo.
Ero dipendente dalle stimolazioni costanti che provenivano dal mio lavoro.
Mi facevano sentire speciale, riconosciuta, protetta e soprattutto non mi davano il tempo di pensare a quanto la mia vita fosse vuota di relazioni significative.
Poi mi sentivo anche tremendamente in colpa quando queste stimolazioni finivano la loro scarica.
Tanto chè immediatamente dopo entravo in ansia e stavo peggio di prima, sentendomi obbligata a ricominciare.
In pratica mi drogavo.
Ho semplicemente sostituito la parola “narcotico” con la parola “lavoro”, ma il bisogno sottostante di frastornare me stessa era lo stesso.
Durante il ricovero mi è stata diagnosticata anche la sindrome da stanchezza cronica.
E tutto questo stava mettendo fine alla mia carriera e a buona parte della mia vita, quando invece avevo solamente 30 anni.
Dopo un anno e mezzo di cure farmacologiche e psicologiche, dentro e fuori dall’ ospedale, adesso non lavoro più tanto.
Non sto ancora bene.
Ma sono certo più consapevole di me stessa.
Sono riuscita a rimanere nell’azienda dove ero, ma mi hanno relegato ad un ruolo molto semplice, gli faccio sicuramente anche pena ora.
A suo tempo però, con la loro cultura basata sul super lavoro senza limiti e regole, hanno contribuito a fortificare la mia dipendenza.
In ogni caso la mia vita come la conoscevo è finita nel peggiore dei modi.
Ora vivo alla giornata, ma sto scoprendo chi sono, a piccolo passi rinasco.
Oltre alla terapia che seguo, ho iniziato anche un corso di yoga e queste nuove attività mi stanno permettendo di dare un senso al mio presente e di viverlo con meno paure.
Finalmente inizio ad accettare, anche se con gran fatica, tutte le mie debolezze.
Instauro nuove amicizie, più autentiche e basate sulla fiducia.
Non entro più in competizione con gli altri come facevo prima.
Quando però adesso entro in una stanza d’ufficio riesco immediatamente ad identificare i maniaci del lavoro.
I ‘workaholic’, come li chiamano gli anglosassoni.
Quelli che non sanno stare mai fermi e vogliono essere sempre al centro dell’attenzione.
Gli ossessionati dal lavoro senza regole e limiti.
Come ero io d’altronde.
Vedo i peggiori elementi della vecchia me stessa riflessi su di essi.
Vorrei aiutarli, ma non so cosa dirgli.
Mi sembrano degli zombi.
Sono già morti e ancora non lo sanno.
Stanno vivendo la loro vita tutta d’un fiato.
Senza respiro.